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Category: Società

Universalità del voto

I commenti sull’esito di Brexit si stanno focalizzando principalmente sull’analisi socio demografica del voto a sostegno delle tesi pro o contro EU. Si evidenzia che il Leave è rappresentato da una fascia di popolazione anziana e poco istruita, mentre lo Stay è per lo più voluto da una fascia giovane ed istruita. I favorevoli al Leave dicono che tuttavia tra i giovani c’è stata una bassa affluenza, mentre tra gli anziani è stata più alta e quindi è “giusto” che la decisione venga accettata. La discussione diventa, come spesso avviene in questi casi, una “lotta di classe” perdendo il focus che, invece, dovrebbe essere centrale: una scelta strategica nazionale sul futuro del paese. Come ben sappiamo, la maggioranza in questo caso è rappresentata dal 51,8% dei votanti. Si parla, quindi, di 17.410.742 per l’uscita contro 16.141.241, ossia una differenza 1.269.501 voti. Un numero sicuramente non piccolo, ma che non è tale da far dire che “la nazione” si è espressa contro la permanenza nell’EU. Tant’è vero che Scozia e Irlanda dove più del 60% si è espresso per rimanere nella UE si stanno ribellando all’esito del referendum, tanto da chiedere l’indipendenza dal Regno Unito pur di rimanere nell’Unione. Prima ancora delle differenze socio-culturali dell’elettorato, qui vi è un problema di una maggioranza semplice (e al limite della soglia) che impone la propria visione ad un’altra metà, che la pensa in modo diametralmente opposto. Se l’esito fosse stato, che ne so, del 65-70%, ovvero una maggioranza qualificata o assoluta, il problema non si sarebbe nemmeno posto. A quel punto si potrebbe dire, per citare la terminologia utilizzata da alcuni, che il popolo si è espresso contro. Una questione, di cui non ha mai parlato la stampa, ma che è stata posta a Westminster a Maggio scorso, attraverso una petizione che oggi conta circa 3 milioni di firme e che, al momento, non è stata ancora discussa a Londra. La petizione chiede una cosa molto semplice: “implementare una regola per la quale se il voto Remain o Leave è inferiore al 60% su una affluenza minore del 75%, ci dovrebbe essere un nuovo referendum“.  Effettivamente sotto queste soglie non possiamo parlare di una decisione nazionale, ma esclusivamente di una decisione di un parte della popolazione (quasi di maggioranza relativa). Tornando alle analisi socio-demografiche del voto, non mi interessa la polemica di chi ritiene, semplificando, che abbia vinto il vecchio ignorante e abbia perso il giovane illuminato. Parto dal presupposto che, in entrambi i casi, fossero voti consapevoli. Mi interessa, tuttavia, che l’universalità del voto sia effettivamente tale e che si eviti la dittatura della maggioranza. Per questo motivo anche io ritengo che o debba essere adottata una soglia di maggioranza qualificata, oppure un meccanismo di doppio voto in caso di affluenza inferiore al…

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I danni degli incarichi “gratuiti”

Dunque il governo Renzi decide di affidare la direzione dell’Agenzia per il Digitale a un top come Diego Piacentini di Amazon per far salire all’81% le famiglie “connesse con reti di prossima generazione” entro il 2020 (oggi al 43%). Anche in questo caso, come lo è stato per Riccardo Luna in qualità di Digital Champion, l’incarico sarà gratuito. Piacentini per i prossimi due anni lavorerà gratis per il Governo Italiano. Se, però, la non retribuzione dell’incarico di Digital Champion è prevista già dal disegno europeo, non si può dire lo stesso per quella di direttore dell’Agenzia per il Digitale. E’ chiaro che Renzi ha deciso questa formula per evitare l’obbligatorietà di ricorrere a selezione con evidenza pubblica. Scelta legittima, che gli permette di avere le mani libere nel nominare chi ritiene più adatto all’incarico. Non sono così illuso dal non pensare che probabilmente Piacentini, comunque, non resterà senza stipendio per due anni e che Amazon, visto l’incarico che ricoprirà, potrebbe aver deciso di continuare a pagarlo. Ma non è questo il punto. Quelli sono affari che riguardano Piacentini. Non mi interessa. Mi interessa tuttavia un altro aspetto che tocca quotidianamente chi lavora nel, per o con il Digitale: farsi pagare le competenze. La tendenza a non retribuire le persone per le proprie competenze potrebbe aggravare la già difficile situazione di chi lavora nel digitale e che ogni giorno si batte contro “il nipote smanettone che mi fa il sito web gratis“; con buona pace degli sforzi fatti da Scano et al. per far riconoscere le professioni del digitale. Si, perché non retribuire Piacentini porta inevitabilmente, nella mentalità diffusa dell’imprenditoria italiana, ad affiancare la scusa del “nipote smanettone” a quella del “guarda, anche il Manager di Amazon lavora gratis”. Ora, non sono uno sciocco e so benissimo che sono argomenti strumentali. Il problema è che questa tendenza a continuare a non retribuire chi lavora nel o per il digitale, lancia il messaggio che queste sono professioni che possono non essere retribuite. Se un Piacentini e un Luna, per merito loro (ci mancherebbe), possono permettersi di “donare” del tempo a queste nobili cause senza compromettere la possibilità di portare il pane a casa, la stessa cosa non si può dire per chi, invece, se non viene pagato, quel pezzo di pane non può nemmeno sognarselo. Se la politica è espressione di chi vota, è anche vero che la politica può consolidare o no questa espressione. Se, quindi, è prassi comune ricorrere all’argomento del “nipote smanettone” e la politica non fa capire che le competenze vanno retribuite ma che, anzi, queste possono essere prese gratis dai top, allora è chiaro che saremo di fronte alla ennesima lotta tra poveri dove – a patto che tu…

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Spaccati dentro

L’Italia è il paese dei mille campanili. Una descrizione che credo di aver sentito da quando sono nato ma, per me, era una questione puramente geografico-urbanistica adornata di un po’ di sano campanilismo che, tutto sommato, può andar bene per creare quella competizione tesa allo sviluppo. Invece no, siamo proprio spaccati dentro. Ricordo che tempo addietro mi imbattei in un post su Il Fatto quotidiano (questo, ve l’ho ripescato) che descriveva l’Italiano all’estero come quello che non si integrava con la popolazione residente, non ne accetta la cultura e che cercava di creare la little Italy. A quell’articolo ne seguì un altro (questo, sempre su Il Fatto Quotidiano), in cui si tentava di smontare quello precedente. Dei due, il secondo, a mio avviso, si avvicina di più al profilo reale. Entrambi, tuttavia, sono parziali. Quando ti muovi all’estero sei straniero in terra straniera, ti aspetti solidarietà, voglia di aiutarsi, specialmente quando la comunità è piccola, come quella in Turchia, dove su un totale di 77 milioni di abitanti la tua comunità è composta da circa 4.000 anime. Invece no. Nei rapporti con i connazionali, nella maggior parte dei casi, ti trovi ad affrontare gli stessi identici problemi che eri solito affrontare quando vivevi in Italia. Con una piccola differenza: che mantenendosi le stesse proporzioni ma riducendosi il numero assoluto, si riduce anche il numero reale di relazioni “sane” che puoi costruire. Si sa, siamo in generale un popolo invidioso o, meglio, siamo un popolo delle “comari”. La nostra migliore immagine la danno i film del realismo e neo-realismo, dove le donne affacciate sul balcone, fanno pettegolezzi sulla vicina di casa. Non siamo cambiati da allora. Quella dimensione è la stessa che oggi puoi ritrovare sotto altre forme quando vivi all’estero. L’Italiano all’estero gode degli insuccessi dei suoi connazionali, rode per i successi. Se in qualche modo ti reputa una “minaccia” a livello professionale, farà di tutto per metterti i bastoni tra le ruote. Aperto a relazionarsi con il territorio, limita a poche unità i connazionali con cui interagisce. Solitamente questi sono appartenenti all’ambiente lavorativo; così trovi i militari in missione Nato a frequentare i militari in missione Nato; il personale delle istituzioni, a frequentare chi gravita attorno alle loro istituzioni; chi ha una attività, a frequentare possibili clienti. Se già anche in Italia l’Italiano è mediamente opportunista, all’estero diventa mercenario: si vende al miglior offerente al grido di “tengo famiglia”. E c’è da notare che, specie in paesi che non sono destinazione di emigrazione di massa, oltre il 90% degli Italiani vive in condizioni economiche agiate (o con un tenore di vita sicuramente superiore a quello che aveva in Italia) e, quindi, non si presenta nemmeno quello stato di necessità che quantomeno potrebbe…

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