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Tag: Reputazione

Come reagire al blogger e uscirne più forti

In questi anni mi è capitato di vedere aziende che, di fronte a post di critiche, per vari motivi si siano mosse verso il blogger minacciandolo di denuncia per diffamazione e costringendolo a rimuovere il post – puntando sul fatto che non ha la forza economica per poter affrontare una causa penale. La pratica di intimazione, usualmente, non avveniva mai in modo diretto a commento del post bensì in forma privata e a mezzo email. Questo, nell’ottica del querelante, avrebbe dovuto tutelare l’azienda e il suo marchio. Così non avviene sempre. Un tale comportamento, infatti, genera una “intolleranza” del blogger che, anche se rimuoverà il post, denuncerà di averlo fatto per essere stato minacciato. Di fronte a questo tipo di “censura”, la rete normalmente reagisce fortemente viralizzando il fatto. L’azienda, quindi, si trova a subire un danno d’immagine maggiore di quanto poteva aver creato il post iniziale. A fronte di un post che si ritiene dannoso per la propria immagine o reputazione, la questione può essere risolta senza particolari problemi e senza necessariamente passare per le vie legali. L’azienda, addirittura, ha l’opportunità di uscirne rafforzata. Innanzitutto è necessario capire chi è il blogger. Fatto salvo alcune eccezioni, come detto, il blogger è una persona che condivide idee solo a titolo personale senza un editore: verificare se è un influencer. Attraverso comuni strumenti di monitoraggio della reputazione, capire quale è la reputazione e il livello di influenza che è in grado di esercitare: capire la sua “anzianità” di rete, l’estensione del network, citazioni, ecc. verificare lo stato di propagazione del post. Capire il numero di condivisioni e commenti che ha avuto. Normalmente basta una semplice ricerca su Google, ma si può ricorrere a ricerche in facebook, twitter o attraversoi sistemi come Social Mention. In base all’esito dell’analisi si possono identificare quattro situazioni: L’innocuo. Il Blogger non è influencer ed il post non è viralizzato, non si configura il danno e quindi è inutile spendere soldi di avvocati. Al massimo si attiva un alert, giusto per sicurezza. La meteora. Il Blogger non è influencer ed il post  è viralizzato. Ha conquistato i 5 minuti di popolarità ma non è un influencer. Rispondere e chiarire non nel post originale ma in quello dell’influencer che eventualmente lo ha ripreso. Il Dormiente. Il Blogger è un influencer ed il post non è viralizzato. Meglio attivare un alert per controllare se cattura l’interesse, ma conviene non destare il can che dorme. La Bomba. Il Blogger è un influencer e il post è viralizzato. Entrare nella conversazione, chiedere o dare chiarimenti senza mai fare la parte della vittima, l’aggressivo o il prepotente. Nel caso rispondere con un post sul proprio blog dando la versione ufficiale. La denuncia o la minaccia…

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Sfiducia e superficialità: i dati

Quella che per me era una impressione, è stata comprovata al Forum della Comunicazione 2011. Ecco il resoconto di Business People: L’era dei social network. Con l’avvento del web 2.0, ma soprattutto dei social network, farsi una reputazione è molto più facile. Ma le piattaforme stile Facebook possono essere un’arma a doppio taglio. “Per questo – spiega Fiorella Passoni – è fondamentale che l’azienda diventi protagonista della propria comunicazione perché, se non comunichi tu, lo farà qualcun altro per te”. Anche in quanto alle fonti attenibili gli italiani si differenziano. Non si fidano dei giornali: solo il 15% crede ai quotidiani, contro il 26% di media europea e il 33% nel resto del mondo. Non va meglio alla tv e ai telegiornali (13% contro 27% e 31%) e radio (16% contro 26% e 27%). Neanche 2 su 3 si affidano ai periodici (24%), esattamente quanti si affidano invece ad un mezzo nuovo come i motori di ricerca (22% contro il 24% e il 29%). Poco creduti, ma la novità forse giustifica un certo scetticismo che coinvolge anche gli altri paesi, pure i blog (13%), i social network (7%) e i siti di condivisione contenuti come YouTube (12%). In ogni caso, per esser creduti in Italia bisogna soprattutto farsi sentire: 6 italiani su 10 dichiarano che per ritenere credibile un’informazione prima devono sentirla ripetere tra le 3 e le 5 volte, uno su dieci addirittura tra le 6 e le 9 volte. Sembra vero, quindi, che Repetita Iuvant, come insegna la scuola comunicazione di  Goebbles Goebbels. Un meccanismo che permetterebbe ai PR di far credere facilmente che Gesù è morto di raffreddore. Un problema che pone questioni di etica di comunicazione e, nuovamente, di cultura.  

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PR, B2B E SOCIAL MEDIA

Ho condiviso anche su FriendFeed l’interessante post di Wendy Marx su B2BMMarketingPosse. Si inserisce bene nella discussione di come i social media possono essere applicati alla comunicazione B2B. Chiaramente ogni strumento ha le proprie regole, quindi il lavoro del PR che intende utilizzarli aumenta in modo esponenziale a seconda della quantità e del tipo di social media utilizzato. Quindi, come evidenzia Wendy riassumendo il post di Sherik, un comunicato stampa deve: Essere ottimizzato per i motori di ricerca – (si, mi piace!) That means having a headline and keywords (typically three is recommended) sprinkled within your release. It means having a short headline that will be visible within the 65 characters Google displays. It means having hyperlinks and a call to action. Your call to action can be a special offer or the opportunity to get a new article or white paper or book chapter. Ideally, you’ll have a landing page connected to your call to action making it easy for someone to get to and easy for you to track your results. Deve avere una versione per i social media – (si, anche questo…) We find a good way to do this is to use PitchEngine, which not only lets you quickly create a social media release but lets you propagate your release online via sites like Delicious and Stumble Upon. This makes it easy for others both to find and share your release. Onestamente non conoscevo PitchEngine, ovvero un servizio per gestire i social media come press target ed avere un’agenzia che si occupa di raccogliere e diffondere i comunicati. Comunicati che, ovviamente, non sono nel formato classico ma studiati per essere indicizzati e richiamare l’attenzione del “lettore”. Ad ogni medium il proprio messaggio – (verissimo, ma…) E’ chiaro come su Twitter ci siano dei limiti “fisici” di lunghezza (i famosi 140 caratteri) e che necessariamente non si potrà inviare un comunicato classico. Il Tweet, quindi, dovrà avere un titolo conciso e di richiamo e, grazie a TinyUrl o altri, si dovrà inserire il link all’approfondimento. In relazione a Linkedin, pare che Sherik suggerisca di andare a pubblicare i comunicati nei principali gruppi B2B. Io personalmente ritengo che sui social network sia praticabile solo in parte la mera diffusione dei comunicati. Se da utente posso tollerare, anche se poco, un Tweet o un post su Friendfeed, andrei cauto nell’inserimento di un SMR su una news di un gruppo. Un social network è un momento di condivisione, di confronto, di scambio di idee. Postare un comunicato così “a ciel sereno” da utente lo troverei invadente, fuori luogo e, soprattutto, mass-mediatico. La soluzione per cui opterei, piuttosto, è l’apertura di una discussione su un argomento (coerente al gruppo), coinvolgere i partecipanti…

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Trasparenza e buon senso…

    Comunicazione: mettere in comune, condividere. Ma cosa condividere? Dall’advertising, alle pubbliche relazioni, all’ufficio stampa, alla comunicazione interna tutte le attività dell’impresa sono quasi sempre rivolte a mostrare il lato A, tendendo a mettere in evidenza solo ciò che c’è di buono e a nascondere sotto il tappeto lo sporco. Tanto da creare situazioni alquanto imbarazzanti nel momento in cui quello sporco tanto nascosto tende a sbucare fuori dagli angoli. Il principio è: “Non dico bugie, ometto solo una parte della realtà”. Specie oggi dove l’informazione si propaga in tempo reale, l’azienda dovrebbe capire che è più conveniente comunicare in modo trasparente, non omettendo nulla e giocare su una leva di chiarezza e pulizia. Per due ovvie ragioni: la prima, molto banale, che la coperta è sempre corta e, quindi, prima o poi anche quello che non ci interessa dire viene comunque fuori; la seconda, molto meno banale, che mediamente si è disposti a “perdonare” quando c’è ammissione di limiti o colpevolezza piuttosto di quando si nega anche l’evidenza. Questi atteggiamenti hanno un impatto profondo sull’immagine dell’azienda. L’effetto più banale e meno invasivo, nel breve periodo, è la credibilità e, nel medio-lungo periodo, l’affidabilità. Se a questo si aggiunge che le reti di relazione presenti tra i clienti sono il canale primario di informazione e valutazione, questo comporta automaticamente il rischio di trovarsi fuori dal mercato senza accorgersene. La trasparenza, tuttavia, richiede soprattutto la capacità di fare introspezione, fare una analisi delle proprie forze e delle proprie debolezze in modo obiettivo. Ad esempio se la mia tariffa telefonica agevolata vale SOLO ed esclusivamente a determinate condizioni, non devo relegare ad un “*” queste informazioni, ma le devo scrivere a caratteri cubitali. Oppure, se ci sono dei problemi di natura finanziaria nell’azienda, non posso dire a prescindere che va tutto bene. Se non ho la soluzione lo dico e, piuttosto, mi prendo l’impegno (e lo devo mantenere) di trovare un rimedio.  Alcuni potrebbero definirla comunicazione etica, io la chiamo solo “buon senso”.

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Chi sta parlando di me?

  Radian6 è una agenzia dedita al monitoraggio e all’analisi della Reputazione on-line. All’interno del loro sito ho trovato molto interessante la descrizione per punti che viene data ai social media, di cui riporto i titoli: Social media is game changing Social media is not a closed system Social media is not just another media Social media is transparent Social media is more than blogs Social media is decentralized and real-time Social media is measurable Se qualcuno dice che i Social Media non sono altro che un altro dei canali per fare marketing, vi sta rubando i soldi. Ancor prima di parlare, è strategico porsi in ascolto. Forse mai come oggi è così vera l’espressione: “Il comunicatore migliore è quello che più sa ascoltare”. La dencetralizzazione e la propagazione delle notizie rende impossibile controllare in senso classico la comunicazione dell’azienda. L’unico modo è quello di creare le condizioni affinché il brand abbia un’ottima reputazione. Per farlo, tuttavia, non sono sufficienti le pubbliche relazioni. La reputazione, oggi più di ieri, è un processo che investe tutta l’organizzazione aziendale: dalla produzione, alla commercializzazione, al post-vendita ma anche, e soprattutto, la soddisfazione dei dipendenti. Se solo uno di questi fattori viene meno, la reputazione è facilmente compromessa ed il rischio aumenta all’aumentare delle dimensioni dell’impresa. Se poi si considera che la rete è ormai la prima fonte di informazione e che ha portato su scala globale il vecchio “consiglio dell’amico”, è chiaro che non potendo controllare milioni di utenti è molto meno costoso organizzare l’azienda affinché la sua credibilità sia salvaguardata dagli stessi utenti. Rimane comunque una rivoluzione copernicana, talmente profonda e radicale che spesso, anche i governi, preferiscono rendere inaccessibili i network piuttosto che farsi un bell’esame di coscienza.

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