Skip to content →

Author: Simone Favaro

Techno and humanist enthusiast. I'm in the technology marketing sector. I'm even the author of a book about on-line business networking.

Cosa si intende veramente con Intelligenza Artificiale Generale

Tra i grandi padri dell’Intelligenza Artificiale vi è la convinzione che tra 50 anni circa assisteremo all’avvento dell’Intelligenza Artificiale Generale. Ma cosa si intende con questo termine? Nell’immaginario comune una Intelligenza Artificiale Generale (Artificial General Intelligence o AGI) ha le caratteristiche di DAVID, il bambino robot del film “Artificial Intelligence” : ragiona come un essere umano, sente e agisce come un umano. E’ in grado di “simulare” un essere umano in tutto e per tutto al punto da rendersi indistinguibile dagli uomini, diventa “umana”. Ma è veramente così? La risposta banale, ma non scontata è: assolutamente no. Come abbiamo già avuto modo di dire tempo addietro (Vedi: Introduzione all’intelligenza artificiale per comuni mortali), una AGI è un sistema il cui scopo non è quello di emulare l’uomo, bensì, attraverso l’emulazione della mente umana, di adattarsi al contesto in cui si trova senza la necessità di essere pre-programmata. Questo permetterebbe ad una macchina di essere completamente autonoma, di apprendere in continuazione e di migliorarsi attraverso l’esperienza. Nella letteratura scientifica, infatti, si fa sempre riferimento a “humanlike” (simile all’uomo) e non semplicemente “human” (umano). L’utilizzo del suffisso “like” (simile) è voluto, non casuale. Nessun ricercatore, ad oggi, si sogna di ricreare la mente umana in formato digitale. Ciò che si sta studiando è, da un lato, l’utilizzo delle attuali conoscenze sulla mente umana per rendere maggiormente autonome le macchine; dall’altro, attraverso il tentativo di simulare il funzionamento, di capire come funziona la nostra mente. Quindi come si farà a capire quando sarà raggiunto il livello AGI ? In realtà nessuno lo sa con precisione per due ordini di motivi:  non si è raggiunto un accordo sulla definizione di intelligenza;  le misurazioni sono fatte sulle prestazioni dell’applicazione ed in particolare sulla precisione. Ad esempio si misura quante volte un algoritmo fa previsioni corrette (accuratezza); si misura il costo di elaborazione in termini di tempo e risorse. Si applicano, in generale, parametri funzionali. Ancora oggi si fa riferimento al Test di Turing, nelle sue svariate forme, per misurare l’evoluzione delle macchine. Tuttavia per molti studiosi non è sufficientemente preciso poiché, per sua stessa natura, il test misura solo la capacità della macchina di sembrare umana, ma non effettivamente la capacità di ragionare ed elaborare un proprio pensiero. Per fare un esempio. Un chatbot potrebbe essere in grado di rispondere a tono alle nostre domande ma queste risposte, molto spesso, si baserebbero solo su un calcolo delle probabilità e sulla selezione della struttura sintattica più appropriata sulla base della domanda posta. Apparirebbe “umano”, ma probabilmente non avrebbe capito di cosa stiamo parlando. Diversa è, invece, la capacità di comprensione del significato e la possibilità di applicare quella conoscenza ad altri contesti. Significa che la macchina deve essere in…

Leave a Comment

The Rise of Machine Intelligence

It’s a change of the game rules. We are no more searching to clone our mind. We are going to create a new form of mind. From this point of view, what we are going to face in the next future is the rising of “machine intelligence”, an intelligence that will not follow the rules of our mind but able to perform even better than the human one.

Leave a Comment

Embers, tra sicurezza e totalitarismo

EMBERS è l’acronimo di Early Model Based Event Recognition Project using Surrogates, ovvero “Progetto di individuazione preventiva di eventi basato su modelli attraverso surrogati”. In parole semplici: prevedere luogo, data e portata di un evento sociale quali, a titolo di esempio, proteste civili, malattie, risultati di elezioni, sommosse, proteste.

Leave a Comment

Il nervo scoperto

“Eco e gli imbecilli” potrebbe essere il titolo di un social book sulla polemica scatenata dalla conferenza di Umberto Eco in cui asserì che “Il dramma di Internet è che ha promosso lo scemo del villaggio a portatore di verità”. Non mi dilungherò qui sulla interpretazione di quanto detto da Eco (esiste già una cospicua letteratura on-line :-)). Mi permetto tuttavia di fare qualche appunto sulle reazioni sproporzionate che il suo intervento ha generato. (su DataMediaHub potete vedere il filmato completo). Eco deve aver toccato un nervo scoperto, in particolare presso i campioni che si sono sentiti oltremodo offesi da una mera analisi sociologica. Si è riaperta la diatriba tra “il vecchio che non conosce”, che vende minacciata la sua autorevolezza ed il nuovo che, seppur senza titoloni, sta facendo crescere il proprio seguito. Tra i vari articoli letti in giro, il post di Gigi Cogo di qualche giorno fa mi sembra quello che meglio esprime il perché della reazione a mio avviso spropositata a una mera analisi sociologica. Non me ne voglia Gigi, sa quanto lo apprezzi per la sua attività divulgativa e per la sua conoscenza della rete. Alcune delle riflessioni che sto per fare, ho avuto modo già di condividerle nei commenti del suo post. Scrive Gigi: Ovviamente Umberto Eco rappresenta al meglio e con ampi e continui riconoscimenti questa specie di dotto esperto mega-super professorone che, rispetto alle nuove tecnologie ma soprattutto rispetto all’espansione e inclusione di massa che esse determinano, si sente obbligato a stigmatizzare la sua superiorità culturale e lo schifato distacco. Innanzitutto Eco non ha oggi, e non ha mai avuto uno schifato distacco nei confronti della rete. Non almeno come Michele Serra (lui si, se potesse, spegnerebbe Internet domani mattina). Tanto è vero che nei primi anni 90, Eco fu tra i primi in Italia a studiare le potenzialità degli Ipertesti e della rete. Ricordo a tal proposito un esperimento di un racconto ipertestuale in cui ogni parola di un paragrafo apriva un nuovo capitolo della narrazione, generando percosi narrativi sempre diversi. Il problema di fondo che assale lui e i suoi simili, e al quale non sanno dare una risposta, è che davvero oggi uno sconosciuto persino agli inquilini del suo condominio può diventare un personaggio influente in rete. Ciò tormenta Eco e altri suoi pari al punto da portarli a condannare tutti quelli che hanno influenza in rete come ignoranti, incompetenti o meglio ancora: imbecilli. Eco nel suo discorso non condanna chi ha influenza in rete. Quello che dice è che c’è il rischio che una bufala diffusa in rete non abbia limiti nel diffondersi se diventa virale. E questo costituisce un problema di formazione del pensiero. Come sappiamo, la narrazione, in…

Leave a Comment

Spaccati dentro

L’Italia è il paese dei mille campanili. Una descrizione che credo di aver sentito da quando sono nato ma, per me, era una questione puramente geografico-urbanistica adornata di un po’ di sano campanilismo che, tutto sommato, può andar bene per creare quella competizione tesa allo sviluppo. Invece no, siamo proprio spaccati dentro. Ricordo che tempo addietro mi imbattei in un post su Il Fatto quotidiano (questo, ve l’ho ripescato) che descriveva l’Italiano all’estero come quello che non si integrava con la popolazione residente, non ne accetta la cultura e che cercava di creare la little Italy. A quell’articolo ne seguì un altro (questo, sempre su Il Fatto Quotidiano), in cui si tentava di smontare quello precedente. Dei due, il secondo, a mio avviso, si avvicina di più al profilo reale. Entrambi, tuttavia, sono parziali. Quando ti muovi all’estero sei straniero in terra straniera, ti aspetti solidarietà, voglia di aiutarsi, specialmente quando la comunità è piccola, come quella in Turchia, dove su un totale di 77 milioni di abitanti la tua comunità è composta da circa 4.000 anime. Invece no. Nei rapporti con i connazionali, nella maggior parte dei casi, ti trovi ad affrontare gli stessi identici problemi che eri solito affrontare quando vivevi in Italia. Con una piccola differenza: che mantenendosi le stesse proporzioni ma riducendosi il numero assoluto, si riduce anche il numero reale di relazioni “sane” che puoi costruire. Si sa, siamo in generale un popolo invidioso o, meglio, siamo un popolo delle “comari”. La nostra migliore immagine la danno i film del realismo e neo-realismo, dove le donne affacciate sul balcone, fanno pettegolezzi sulla vicina di casa. Non siamo cambiati da allora. Quella dimensione è la stessa che oggi puoi ritrovare sotto altre forme quando vivi all’estero. L’Italiano all’estero gode degli insuccessi dei suoi connazionali, rode per i successi. Se in qualche modo ti reputa una “minaccia” a livello professionale, farà di tutto per metterti i bastoni tra le ruote. Aperto a relazionarsi con il territorio, limita a poche unità i connazionali con cui interagisce. Solitamente questi sono appartenenti all’ambiente lavorativo; così trovi i militari in missione Nato a frequentare i militari in missione Nato; il personale delle istituzioni, a frequentare chi gravita attorno alle loro istituzioni; chi ha una attività, a frequentare possibili clienti. Se già anche in Italia l’Italiano è mediamente opportunista, all’estero diventa mercenario: si vende al miglior offerente al grido di “tengo famiglia”. E c’è da notare che, specie in paesi che non sono destinazione di emigrazione di massa, oltre il 90% degli Italiani vive in condizioni economiche agiate (o con un tenore di vita sicuramente superiore a quello che aveva in Italia) e, quindi, non si presenta nemmeno quello stato di necessità che quantomeno potrebbe…

Leave a Comment