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Tag: impresa

Continuiamo a parlarci addosso e le cose cambiano poco

Quanto scriviamo di marketing, comunicazione, web 2.0 (brrr… questo termine mi fa venire sempre i brividi), pr, strategia, ecc ? Quanto realmente le cose stanno cambiando? Non è che forse ci stiamo parlando troppo addosso senza contagiare il mondo esterno? Attenzione, includo anche me in questa categoria. Sia come “blogger” sia come lettore. Chi mi legge è qualcuno che ha già la sensibilità sui temi e, quindi, cerca conforto alle sue idee nelle idee degli altri. Così come vado in cerca di determinati temi in rete perché ho già la sensibilità, la curiosità personale nel volerli approfondire. Non è un approccio vincente. E’ inutile stare qui a dire “come dovrebbe andare il mondo” senza dire al mondo la nostra opinione e senza sentire quali sono le barriere all’ingresso. E’ lo stesso principio per cui un marketer non dovrebbe stare chiuso in ufficio a guardare i freddi numeri di budget, dati demografici, ecc. ma dovrebbe uscire e parlare con la sig. Pina o con il commenda Mario Brambilla di turno per capire cosa vogliono. Penso personalmente che sia tempo di uscire da questo circuito di autoreferenzialità e, almeno, tentare di confrontarci con i nostri committenti. Di parlare con la loro lingua ed i loro riferimenti culturali, per fare capire che quello che si propone non è un attentato, ma un mezzo per farli lavorare meglio. Ma soprattutto, ascoltare quali sono le REALI motivazioni che li rendono restii a determinati approcci. Un lavoro lento, lungo, ma che va necessariamente fatto.

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Manager all’Italiana

Dal pezzo di Gabriele Romagnoli pubblicato su Repubblica.it. Vi riporto solo due stralci, ma vi consiglio la lettura completa dell’articolo. Un solo commento: “Bah”! Come viene scelto un manager in Italia? Una minoranza di imprese (quelle non familistiche e a vocazione multinazionale) si basa sulle performance, incarica cacciatori di teste, mette annunci, fa riferimento a precedenti contatti d’affari. Ma la maggioranza decide altrimenti. Come? Sulla base delle relazioni personali. Al limite di quelle familiari. Tradotto: non si sceglie qualcuno che ha dimostrato di valere, ma uno con cui si è fatto il liceo, o il compagno di merende del cugino. I dirigenti delle aziende di Silvio Berlusconi non sono forse stati in maggioranza suoi compagni di scuola? E non è poi venuta la volta dei compagni di Pier Silvio (cooptato per eredità)? Ci sono sistemi peggiori? Forse sì: il presidente Moratti affidò la panchina dell’Inter a Orrico dopo averlo sottoposto a prova grafologica e Gabriella Spada, moglie del fondatore della Giacomelli Sport, non si fidava di nessuno che non fosse stato approvato dalla cartomante (poi Orrico fu esonerato e la Giacomelli ha fatto crac).    Mettiamola così: tu sei un manager rampante, pensi che ti sarà più utile per fare carriera il risultato ottenuto nell’attuale incarico o la conoscenza non superficiale di Gianni Letta? È una conclusione ancora provvisoria, non essendo lo studio terminato, ma l’impressione è che le due ricerche siano strettamente correlate. In un universo in cui la determinazione delle posizioni non è legata ai titoli né ai risultati, ma ai rapporti, i manager dedicano più tempo a tessere questi che a far funzionare le aziende di cui hanno la responsabilità. Ecco che il circolo vizioso si chiude: in mezzo restano aziende che non brillano più da oltre un decennio, lavoratori che ne pagano le conseguenze, un marchio, “Made in Italy”, appannato. Segnali di un’inversione di tendenza? Nessuno. Hai una laurea con il massimo dei voti, hai un carattere indipendente, non sei propenso alle relazioni pubbliche, tendi a dire quel che pensi e contrastare anche chi ti paga se pensi che sia per il bene comune? Sei magari perfino donna? Non pensare di fare il manager in Italia. Al limite vai all’estero, alla London School of Economics a fare un’impietosa ricerca sui manager.  E chi non ha avuto di queste esperienze?

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