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Tag: Web

Post-digitale: welcome to the real world

Ho condiviso ieri su Amplify questo articolo interessante di ADAge relativo all’era del Post-Digitale. In sintesi quanto si sostiene è che, al di là dei grandi investimenti fatti sulle piattaforme digitali, in realtà i marketer attuano campagne che di digitale hanno ben poco – vi rimando all’articolo per gli approfondimenti e gli esempi. Iniziai a parlare di post-digitale qualche anno fa. Si basa su un concetto molto semplice: non esiste più una distinzione e un confine netto tra ciò che è rete e ciò che è mondo reale. Le due sfere si mescolano e creano un’unica esperienza. Non si tratta nemmeno di realtà aumentata. La realtà aumentata parte dal presupposto che esiste il mondo reale e un insieme di “protesi” che estendono la conoscenza. Il Post-Digitale, invece, vede nel web uno degli aspetti della vita: come ci sono gli aperitivi, il lavoro, l’ufficio, gli amici, la casa, così esiste un altro ambiente chiamato web che frequentiamo al pari di altri ambienti e, al pari di altre situazioni, il web può influenzare ciò che è “fuori” da esso. E’ chiaro, quindi, che si innesca un flusso continuo in cui il centro non è il mondo reale né quello virtuale. Il centro è l’IO che si muove in diversi ambienti. Il Post Digitale in questo senso richiama il concetto di neo-umanesimo e della riscoperta dell’individuo come centro e motore delle proprie azioni. Non è una mera disquisizione filosofica. Ha grossi impatti nel quotidiano. Li vedremo più avanti.

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Web, un altro medium

Dagli anni 20 la scuola di Francoforte tentò di analizzare il potere dei mass media nel controllo delle masse elaborando un insieme di teorie che descrivevano i processi di controllo dell’opinione pubblica. In tale contesto fu sviluppata la teoria dell’ Agenda Setting, secondo la quale i mass media (Radio, TV, Giornali) erano in grado di determinare le priorità sociali attraverso la selezione e la ripetizione di precisi messaggi. Successivamente, ci si rese conto che questo processo era possibile solo se, ad amplificare il messaggio, ci fosse un opinion leader riconosciuto come autorevole e credibile dall’audience. Questa teoria (comunicazione a due stadi) è applicata ancora oggi nel marketing introducendo il “testimonial” nelle campagne pubblicitarie. La rete potrebbe sembrare da questo fenomeno per effetto dello spostamento dal centro alla periferia della produzione dell’informazione, per il moltiplicarsi delle fonti e per l’assunto della volontà di approfondimento  e di partecipazione da parte degli utenti. Anche se le modalità di produzione e di fruizione dell’informazione sono nettamente differenti rispetto ai media tradizionali, taluni fenomeni sono assimilabili a queste teorie. Si pensi al fenomeno delle blog-star che si è manifestato qualche anno fa. Talune blog star erano giunte ad una credibilità ed autorevolezza tale che addirittura i mass media stessi ne venivano influenzati, riprendendo notizie senza alcuna verifica (talvolta prendendo delle cantonate clamorose). Oggi nei social network il principio potenzialmente è lo stesso. Dalle blog-star si passa alle network-star che si misurano su criteri quantitativi (numero di contatti, numero di commenti) ed alcuni criteri qualitativi (autorevolezza, misurabile nel numero di riprese e condivisione dei contenuti prodotti o segnalati e qualità dei contatti). Potenzialmente queste persone diventano il canale di amplificazione di un messaggio deciso a priori da qualcun altro che, in questo modo, è in grado di raggiungere un target ampio e superare meglio i filtri che sono stati naturalmente sviluppati verso l’advertising o la “propaganda”. Maggiore e più ampio è il network e maggiore è l’indice di autorevolezza riconosciuto alla persone che sono incluse, minori sono le probabilità che possa essere smentito. Non che non possa avvenire, ma chi lo smentisce deve naturalmente avere un indice di credibilità superiore. Il tutto perché l’autorevolezza riconosciuta aumenta esponenzialmente sulla base del numero e dal grado di “credibilità” delle persone. A questo va aggiunto il principio di omologazione che caratterizza qualsiasi gruppo sociale, ed ecco che potremo sostenere, esagerando, che la terra è quadrata e nessuno si permetterà di smentire. Come citato su Wikipedia nelle conclusioni sull’Agenda Setting: Il mondo di internet non fa tuttavia eccezione, semplicemente ciò non si nota perché le dimensioni dei fenomeni sono rapportate alla frantumazione dei gatekeeper presenti sul web. Il vero passo in avanti quindi potrebbe non essere la presunta novità del…

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COMUNICARE IL 2.0

Dire che il web 2.0 è una rivoluzione è un falso e antieconomico. Parlare di 2.0 come evoluzione, aggiornamento tecnologico e non rivoluzione, significa inquadrare nei giusti limiti il fenomeno e agevolarne la diffusione nelle imprese. Se le parole hanno ancora una valenza (e a mio avviso ce l’hanno), la cosiddetta rivoluzione del 2.0 è una bufala di dimensioni galattiche. Ho avuto già modo di introdurre l’argomento e di essere accusato di eresia dai network-taliban. Resto tuttavia convinto che nell’avvento del 2.0 si registri SOLO un upgrade di natura tecnologica e non una reale rivoluzione, come spesso si tende a sottolineare. Partiamo dalla definizione di web 2.0 diffusa attraverso Wikipedia (Inglese): “Web 2.0” refers to the second generation of web development and web design that facilitates information sharing, interoperability, user-centered design[1] and collaboration on the World Wide Web. The advent of Web 2.0 led to the development and evolution of web-based communities, hosted services, and web applications. Examples include social-networking sites, video-sharing sites, wikis, blogs, mashups and folksonomies.” Nella prima parte si parla di una “seconda generazione” di applicazioni web che facilitano la condivisione di informazioni, l’interoperabilità., la collaborazione sul Web. Io ho iniziato ad utilizzare la rete a fine degli anni 80 con il mio vecchio Commodore64 collegato ad un Adattatore Telematico (modem) , collegandomi a Videotel e BBS. Già allora esistevano le community, già allora si scambiavano informazioni. L’interfaccia, certo, era a caratteri, gli strumenti limitati, la diffusione della rete non era massiva e limitata ad un nucleo ristretto di utenti, ma la collaborazione esisteva. Negli anni successivi arrivò il Gopher e poi l’http e la possibilità di creare pagine web. La creazione richiedeva la conoscenza dell’HTML e competenze tecniche. Già a metà degli anni 90, molti host rendevano disponibili script in Perl per la gestione dei Forum e Javascript per l’aggiornamento delle news sul sito nonché le “bacheche” dei visitatori (preludio allo user-generated-content). La tecnologia era quella che era e richiedeva delle competenze sicuramente non alla portata di tutti. L’evoluzione tecnologica ha permesso, prima con strumenti WYSWYG e poi con applicativi web based di facilitare la pubblicazione di contenuti e questo ha dato una spinta all’accesso. Ma è una questione meramente tecnologica The term is now closely associated with Tim O’Reilly because of the O’Reilly Media Web 2.0 conference in 2004.[2][3] Although the term suggests a new version of the World Wide Web, it does not refer to an update to any technical specifications, but rather to cumulative changes in the ways software developers and end-users use the Web. Whether Web 2.0 is qualitatively different from prior web technologies has been challenged by World Wide Web inventor Tim Berners-Lee who called the term a “piece of jargon”[4].”…

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Addio Web Advertising, non ci mancherai

  Il Web non è fatto per l’advertising. Come sostiene Eric Clemos (via Luca De Biase):  “The expected drop in internet advertising revenues this year was neither unpredictable nor unpredicted, nor was it caused solely by the general recession and the decline in retail sales […]Pushing a message at a potential customer when it has not been requested and when the consumer is in the midst of something else on the net, will fail as a major revenue source for most internet sites.  This is particularly true when the consumer knows that the sponsor of the ad has paid to have this information, which was verified by no one, thrust at him.”  Come ho avuto modo di dire parlando di Facebook (commentando questo post e anche questo), stiamo parlando di uno scenario molto diverso rispetto alla fine degli anni 90 e agli inizi del 2000. La visione della comunicazione d’azienda deve essere rivista considerando che:  L’informazione è decentrata. L’utente non è più solo fruitore di contenuti, ma li genera. Nella marea di informazioni e di messaggi che invadono il web, sono stati sviluppati filtri cognitivi che ci rendono impermeabili alla pubblicità. Anzi, di più. Siamo diventati refrattari a tutto ciò che ci viene imposto come comunicazione. O ne siamo partecipi, o non ce ne frega nulla. Se un banner o un qualsiasi AD mi rallenta il caricamento della pagina, non solo mi infastidisco, ma il brand di quel poveretto che ha investito riceve pure un danno di immagine.  La brand awareness non passa più attraverso le impressions o i click through. E’ definita dalla conversazione tra gli utenti in rete.  Il web è Relazione. Io azienda non sono un emittente, non sono un soggetto che comunica, ma un soggetto che fa parte di una conversazione dove il mio contributo vale in potenza tanto quanto quello di un singolo blogger. Quindi in rete si dovrò bandire la vecchia frase tanto cara a molti imprenditori “azienda leader nel proprio settore”. Se lo sei, ti verrà detto. Altrimenti non lo sei, mettiti l’animo in pace, stai sereno e fai il tuo lavoro.  Il web non è altro rispetto all’off-line. La distinzione tra on-line e off-line è inesistente. Chi frequenta la rete sono le stesse persone che incontro ai meeting, ai convegni, al bar mentre bevo lo spritz. Non sono schizofrenici (mediamente) e in rete portano gli stessi valori e le stesse caratteristiche che hanno tutti i giorni. Allo stesso modo l’azienda è una, sia on sia off line. Gli interlocutori (il target) sono gli stessi. Quindi la mia immagine deve essere coerente su tutti i fronti. La mia comunicazione, nei contenuti ovvio non nelle forme, deve essere la stessa.  Internet non è un…

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Perchè San Remo… non è San Remo

  Il Festival di San Remo di Bonolis mi piace, benché presenti molti degli schemi già utilizzati in altri suoi programmi, specie nell’interazione con Luca Laurenti.  E’ interessante lo stile di conduzione da avanspettacolo applicato ad contesto che per molti anni è stato il simbolo dell’ingessamento. Per la prima volta (non ricordo altre edizioni) si vede un pubblico vivo, partecipe. Poi ci sono molti elementi di novità anche nell’organizzazione stessa della scenografia e della regia:  1)      la giuria popolare in sala. Finalmente l’entità tanto misteriosa della giuria popolare non solo ha un volto ma diventa attore dello show e interagisce con il palco.  2)      La giuria web e l’inserimento di artisti eletti direttamente dalla rete. Benchè mostri ancora tutti i limiti della ‘novità’, l’idea di far selezionare alcuni artisti direttamente dal popolo dovrebbe, a tendere, risolvere la controversia per anni discussa sulla effettiva rappresentanza della musica italiana.  3)      La scelta degli spazi fisici. La giuria popolare in galleria, la giuria web a fianco del palco. Al centro, distribuiti attorno a un ‘disco’, le orchestre da un lato classica (archi, fiati) e dall’altro moderna (chitarre, bassi).  4)      Le aperture delle serate. Lunedì il filmato di Mina, ieri il montaggio interattivo sulle scene di Amadeus. Quest’ultimo, in particolare, l’ho trovato meraviglioso: geniale l’idea di gestire, attraverso un montaggio alternato in diretta, la fase creativa e il risultato finale.  5)      Vallette e Valletti. Ogni sera un uomo e una donna, sempre differenti. Non si cade mai nella monotonia.  Per quanto mi riguarda, la direzione artistica di Bonolis è promossa. Anche se, Lunedì, mi è caduto un po’ sul cecchinaggio a Del Noce. Tuttavia, qualche soddisfazione all’ego del direttore di rete bisogna pur darla.

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