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Simone Favaro's Tales Posts

Su blog e giornalismo

Avrei voluto commentare il post direttamente sul blog di Anna Bruno. Tuttavia non mi è possibile perché i commenti sono chiusi. Quindi, rispondo qui, ma tengo a precisare che ho mandato una email di notifica della mia risposta, in modo tale da poter permettere una eventuale replica. In sintesi: Anna Bruno torna sul tema della legge sull’editoria appoggiandola in quanto, ritiene, serva a garantire una qualità dell’informazione minacciata da un proliferare di blog che si mascherano dietro ad una autorevolezza informativa che in realtà non hanno. E’ una posizione abbastanza comune tra i giornalisti (non tutti per fortuna) ma la ritengo quanto meno superficiale e sicuramente mancante di una conoscenza del fenomeno dei social media. Chi ‘vive’ il fenomeno dei blog e dei social media da dentro sa che ciò che rende autorevole una fonte è la ‘reputazione’; e la reputazione di un blogger è costruita perché qualcun altro gli riconosce la competenza: maggiore è la reputazione di chi riconosce, maggiore sarà la reputazione del blogger; e, ancora, quando un blogger si gioca la reputazione, automaticamente viene ‘squalificato’. Non si può dire lo stesso di un giornalista che lavora solo in virtù di una autorizzazione riconosciuta da un ordine composto dai suoi stessi colleghi e, come si sa, “cane non mangia cane”. Questo ancor più dimostrato dal fatto che le testate on line generalmente non permettono mai di commentare le notizie. Altro punto che non condivido è paragonare la professione giornalistica a quella del medico, dell’architetto, ecc. Premesso che non esistono professioni di serie A e di serie B e che ritengo che tutti gli ordini professionali siano anacronistici e andrebbero aboliti (ne parlo anche qui in parte), il giornalismo è proprio una di quelle professioni che non dovrebbero avere un ordine professionale. La presenza di un ordine che voglia gestire l’informazione va nella direzione opposta rispetto alla tanto declamata pluralità di informazione ed espone, inoltre, a un controllo che non sempre è attuato per “garanzia” (ricordiamoci che l’ordine dei giornalisti è stato voluto da Mussolini). Infine, non è assolutamente vero che un giornalista – anche se iscritto all’ordine – tenga separata l’opinione personale da quella professionale, anzi. Nessuno può garantirlo. La sola scelta delle parole in un articolo, la scelta di immagini in un servizio sono frutto di libero arbitrio di chi fa il pezzo e che decide cosa secondo lui è più importante evidenziare rispetto ad altro. Quindi, anche se i fatti sono “veri”, le fonti certificate ed il pezzo controfirmato da un direttore responsabile, la notizia come prodotto sarà sempre viziata dalla visione di chi la veicola. Nello stesso identico modo in cui lo è quando a veicolarla è un blogger, che però non ha chi gli…

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Tutti pazzi per Facebook

Computerworld Italia è forse una delle testate più note del mondo business IT. Bene, anche loro hanno deciso di aprirsi a Facebook con una Fan Page . Cita l’occhiello dell’articolo: “Aperta una pagina sul popolare social network con aggiornamenti in tempo reale dei principali contenuti giornalistici del nostro sito. Possibile naturalmente diventarne fa”  Premesso che non l’ho ancora visto (ahimè le policy aziendali), già il lancio mi lascia perplesso. La caratteristica dei social network è l’intareazione tra i partecipanti. Qui invece si parla sempre di una fonte che aggiorna una pagina che qualcuno consulta. Ha un senso, in questo modo, essere presenti su Facebook? Non era forse meglio aprire un blog, se questo è l’obiettivo? Dove sta l’interazione e la partecipazione?  Facebook, così come altre mille ‘novità’ prima di lui, è considerata l’isola del tesoro. Non puoi non esserci. Mi chiedo se effettivamente sia così. I social network innanzitutto sono fatti di persone e il loro fine è di mettere in relazione le persone. Quindi mi chiedo, ha un senso presentarsi come azienda per accreditare un brand? Credo che abbia un senso solo nel momento in cui il brand è già affermato e, quindi, Facebook diventa una community. Ma allo stesso tempo non può limitarsi a essere una community passiva, dove esiste una fonte e una serie di destinatari. Deve essere impostata come community attiva attraverso cui il brand entra in contatto con il ‘cliente’ e assieme a quest’ultimo genera contenuti o prodotti. Allora, sì, ha un senso. Purtroppo come tantissime altre tecnologie (Second Life docet) si parte dal presupposto che se esiste la tecnologia, bisogna sfruttarla a tutti i costi. Niente di più sbagliato. Ogni piattaforma va utilizzata per quello che è stata creata: inutile diramare uno spot realizzato per la tv nazionale su una radio locale. Sia il target sia i codici di comunicazione sono sbagliati.  A proposito di tassonomie: facebook-marketing mi mancava ancora.

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Dal Digital al Social Divide

  Con l’estensione della copertura della banda larga, non si tratta più di assicurare e garantire l’accesso alla rete, bensì di diffondere una cultura della rete. Non come conoscenza tecnologica, bensì come educazione al medium.  Se da un lato i social media hanno un potenziale costruttivo elevatissimo per agevolare le relazioni tra gli utenti, dall’altro lato esiste un altrettanto elevato rischio su cui si gioca la reputazione dei singoli.  Se si pensa infatti che social network, blog e gruppi divengono sempre più canali di recruiting, è immediato pensare che se non sei in rete, sei fuori dal mondo del lavoro. Esiste, tuttavia, un altro aspetto. Se da un lato i social media ti possono aprire al mondo del lavoro, gli stessi strumenti ti possono lasciare fuori se non li sai gestire consapevolmente poiché tutto ciò che noi pubblichiamo (foto su face book, filmati su youtube, ecc.) soprattutto grazie agli aggregatori e ai sistemi di sottoscrizione e aggiornamento (rss feed, ecc.) entra nella memoria condivisa e non sarà mai possibile cancellare del tutto.  Quindi non esiste solo un problema di mera presenza sulla rete, ma anche una educazione all’utilizzo della rete che deve essere preventiva. La vera separazione sarà tra chi ‘controlla’ la propria presenza sui social media e chi la subisce. Si creerà, quindi, una differenza tra chi è in rete e chi sa utilizzare la rete. Si aprirà una questione di Social Divide, ancor più seria del Digital Divide, perché a differenza di quest’ultimo non lo puoi normare e non puoi risolverlo con infrastrutture o con lettere di avvocato che intimano di cancellare il post. E’ un processo di crescita culturale che passa attraverso l’esperienza e l’apprendimento diretto di ciascuno. Sarà strategico sempre più che si questo devide venga colmato non solo per l’interesse del singolo, ma soprattutto della società. Una maggiore consapevolezza degli strumenti ridurrà, di conseguenza, i casi di abusi di cui oggi parla la stampa.

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Le reali potenzialità del Social networking ieri a Treviso!

All’incontro di ieri organizzato da NordEstCreativo si è parlato di Social Networking, non di facebook, di ning, di linkedin. Si è parlato di come gli strumenti di Social Networking stiano ri-definendo i comportamenti sociali ed i modelli di business e per la prima volta, almeno per me, si è parlato di numeri. E mentre mediamente le aziende impediscono l’accesso ai social network, c’è chi come l’azienda LAGO, implementa il social network come strumento di collaborazione produttiva ottenendo risultati a dir poco sconcertanti: – 40% nei tempi d attivazione delle persone; -97% nei tempi dedicati alle riunioni, demandando agli strumenti di collaborazione la gestione delle comunicazioni; + 40% dell’indice di qualità delle decisioni  Che dire? I numeri parlano da soli.

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Perchè San Remo… non è San Remo

  Il Festival di San Remo di Bonolis mi piace, benché presenti molti degli schemi già utilizzati in altri suoi programmi, specie nell’interazione con Luca Laurenti.  E’ interessante lo stile di conduzione da avanspettacolo applicato ad contesto che per molti anni è stato il simbolo dell’ingessamento. Per la prima volta (non ricordo altre edizioni) si vede un pubblico vivo, partecipe. Poi ci sono molti elementi di novità anche nell’organizzazione stessa della scenografia e della regia:  1)      la giuria popolare in sala. Finalmente l’entità tanto misteriosa della giuria popolare non solo ha un volto ma diventa attore dello show e interagisce con il palco.  2)      La giuria web e l’inserimento di artisti eletti direttamente dalla rete. Benchè mostri ancora tutti i limiti della ‘novità’, l’idea di far selezionare alcuni artisti direttamente dal popolo dovrebbe, a tendere, risolvere la controversia per anni discussa sulla effettiva rappresentanza della musica italiana.  3)      La scelta degli spazi fisici. La giuria popolare in galleria, la giuria web a fianco del palco. Al centro, distribuiti attorno a un ‘disco’, le orchestre da un lato classica (archi, fiati) e dall’altro moderna (chitarre, bassi).  4)      Le aperture delle serate. Lunedì il filmato di Mina, ieri il montaggio interattivo sulle scene di Amadeus. Quest’ultimo, in particolare, l’ho trovato meraviglioso: geniale l’idea di gestire, attraverso un montaggio alternato in diretta, la fase creativa e il risultato finale.  5)      Vallette e Valletti. Ogni sera un uomo e una donna, sempre differenti. Non si cade mai nella monotonia.  Per quanto mi riguarda, la direzione artistica di Bonolis è promossa. Anche se, Lunedì, mi è caduto un po’ sul cecchinaggio a Del Noce. Tuttavia, qualche soddisfazione all’ego del direttore di rete bisogna pur darla.

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